Il bunraku
Il bunraku non nasce per gemmazione o distacco diretto da una atavica pratica rituale ma dalla felice confluenza di tre arti, quelle della manipolazione, della narrazione e dell’accompagnamento musicale dello shamisen, in un linguaggio nuovo e immediatamente votato all’intrattenimento. La fusione di queste tre arti (sangyō) ha dato luogo a quella che è stata definita “la più raffinata forma di teatro di marionette nel mondo” e che molti considerano allo stesso modo nel più ampio novero del teatro tout court. […]
Nei secoli trascorsi dalle prime rappresentazioni si sono alternati sulle scene diversi tipi di burattino e la marionetta bunraku che noi conosciamo, quella estremamente raffinata, arricchita di prodigiosi meccanismi per variare l’espressione del volto o articolare le dita delle mani e mossa in scena da tre manipolatori in contemporanea si affermerà solo verso il 1740, ossia oltre due secoli dopo la nascita del bunraku. L’iniziale successo del genere, e il motivo di primario interesse del pubblico popolare che ne ha sostenuto gli inizi, risiedeva nella narrazione, una pratica di intrattenimento che i giapponesi hanno sempre prediletto. […]
I nuovi modelli, molto più grandi e pesanti dei precedenti, necessitano ora di tre operatori che li agiscano in simultanea. I manipolatori, che in scena e sono perfettamente visibili al pubblico, si istituzionalizzano in ruoli con precise incombenze e corrispondenti livelli gerarchici. […] Gli operatori, che per convenzione sono invisibili al pubblico, entrano in scena vestiti di nero e col volto coperto da un cappuccio di garza dello stesso colore che ne annulla la soggettività. L’unico, salvo rare eccezioni, a performare a volto scoperto e a poter evitare l’abito nero è lo omozukai [manipolatore principale] che ha però l’obbligo di mantenere una impassibile espressione del volto – analoga allo zeamiano volto di pietra – per non privare la marionetta della sua centralità espressiva. […]
L’architettura teatrale bunraku contribuisce a rinforzare l’effetto estetico che maggiormente caratterizza questo genere e che potremmo definire sbrecciatura. Il palcoscenico, posto frontalmente al pubblico, è più largo che profondo e suddiviso in tre piani successivi – dal fronte al fondo scena – marcati da tre balaustre (tesuri) di altezze differenti che nascondono il piano per consentire una migliore riuscita degli effetti di manipolazione. La pedana del chobo, dalla quale si propagano le voci dei personaggi e il commento sonoro della vicenda, è decentrata sulla parete di destra esternamente al palcoscenico. Il flusso spettacolare, quindi, non è univoco e allineato bensì scisso in due differenti canali che entrano in competizione dinamica frantumando, di fatto, la possibilità di una totale immersione nella diegesi. Ciò produce, nuovamente, la dialettica del binomio natura-artificio ribadita inoltre dall’effetto straniante della compresenza animata dei manipolatori che agiscono e vivificano la presenza altrimenti inanimata della marionetta.
Estratti da Matteo Casari, Bunraku: il teatro giapponese delle marionette, in Giovanni Azzaroni – Matteo Casari, Asia il teatro che danza, Le Lettere, Firenze, 2011, pp. 189-196.