Il teatro nō
Con l’avvento al potere degli shōgun Ashikaga [XIV secolo] il clima culturale mutò radicalmente con l’affrancamento dalle influenze sociali e spirituali della Cina. La filosofia buddhista zen, non solo di pertinenza dei monaci, ma “qualche cosa che ciascuno può fare”, influenzò profondamente la società e le arti permeandole di un sentimento di dolce e cosciente malinconia, portato di un percorso che si indirizzava verso la ricerca della verità e l’annullamento del dolore. L’arte drammatica non fu immune da questa temperie e maturò una evoluzione che lentamente la portò ad affermarsi come teatro d’arte. Non esistono documenti storicamente certi sui modi e i tempi della trasformazione del sarugaku e del dengaku in teatro d’arte, tuttavia è possibile affermare che il teatro classico oggi chiamato nō (vocabolo sino-giapponese che significa abilità, talento, arte: in origine connotava le capacità dell’attore, in seguito indicò le caratteristiche dell’interpretazione e infine le peculiarità del dramma) è stato l’impareggiabile risultato del raffinamento e dello sviluppo del sarugaku no nō, dovuto al geniale attore Kan’ami Kiyotsugu (1333-1384) e a suo figlio Zeami Motokiyo (1363-1444), che ne postulò i fondamenti teorici.
Il nō è dunque “il culmine delle numerose forme di drammi danzanti che lo precedettero. In esso sono amalgamate una verietà di tecniche e di influenze. Il risultato è una sintetica forma d’arte vicina alla perfezione” (Bowers); delllo stesso avviso è W. G. Aston, il quale sostiene che “allorché la danza e la musica delle kagura furono integrate dal dialogo parlato, il nō ne fu il risultato”. […]
Particolarmente importante è il rapporto dell’attore con il pubblico, referente privilegiato del suo lavoro: per un maestro è possibile, sin dalla prima occhiata, percepire se il dramma avrà successo, se la sua recitazione sarà in armonia con i sentimenti degli spettatori. La perfezione è originata dal punto in cui si equilibrano lo yin e lo yang: poiché il giorno è un ambiente yang per creare interesse l’attore deve dar vita a una situazione yin e viceversa; in caso contrario non potrebbe esservi equilibrio e pertanto non esisterebbe interesse. […] con l’esercizio e lo studio costanti sarà possibile giungere alla completa padronanza dell’arte scenica, alle condizioni dello sbocciare del fiore, e cioè la concordanza delle relazioni tra l’attore e lo spettatore. Il fiore è un epifenomeno, è l’interessante, l’insolito, è quell’incanto che sorprende e conquista lo spettatore, è quell’emozione che il pubblico non si aspetta, è una disposizione psichica che rifugge dal realismo grossolano. […]
Estratti da: Giovanni Azzaroni, Teatro in Asia – Malaisya, Indonesia, Filippine, Giappone, CLUEB, Bologna, 1998, pp. 284-305.